I lati negativi di un lavoro che amo

Anna Rizzo
4 min readMar 3, 2021

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Osservare persone attratte dalla morte.

In questi mesi sta emergendo la parte più illegale e reazionaria di molta gente. Come se nella confusione di questo periodo si legittimino comportamenti che fino a qualche mese fa sarebbero stati perlomeno nascosti e non usati come tratto distintivo di un gruppo. Come per esempio, chi ama intrufolarsi nelle case degli altri, “in cerca delle loro radici” e in cerca di brividi macabri. Entrano dappertutto, dai casali abbandonati, alle ville, alle case di paese, che secondo loro non hanno eredi. Questa modalità predatoria è una delle tante che esprimono ciò che sta accadendo nelle aree dismesse d’Italia, dalle periferie industriali, ai paesi in spopolamento. Mi ha fatto parecchia impressione vedere vandalizzare case, ville, appartamenti e palazzi solo per il gusto di entrarci dentro. Lo chiamano Urbex, a me sembra la nemesi di una modalità illegale e forse annoiata e di una mancanza di motivazioni esistenziali, che li porta a vagare tra contesti abbandonati e privati. Sdoganare lo scasseggiamento degli appartamenti e la trafugazione di oggetti come atto di salvaguardia mi sa di modalità da Arancia meccanica. Ho questa sensazione. Mi ha fatto molta paura vedere certe immagini, perché sappiamo tutti che sono case private, probabilmente chiuse per un avvicendamento di eredità non spartite o per mancanza di eredi. Nessuno di loro ha diritto di entrare in quelle case. Né tanto meno pubblicizzare queste modalità predatorie, che sono un vero e proprio reato di violazione di domicilio, in paesi abbandonati o spopolati. Questa è una delle parti malsane che sta emergendo in un periodo molto complesso. Quando ho scritto per Formicaleone un articolo sui rovinologi, sulle persone che entrano nelle zone rosse terremotate, o dentro le case degli altri, pensavo che il fenomeno fosse contingentato. Invece esiste un movimento, di cui non dirò in nome, perché mi fa orrore, che si fa portavoce di questa modalità.

Nella grande confusione che si sta creando intorno all’argomento paesi, borghi, servizi di prima necessità, medicina territoriale e spazi dismessi, si stanno infiltrando dei personaggi al limite del legale, che sfruttando questo argomento, un po’ perché ci abitano in un paese, un po’ perché si sentono dei “salvatori di comunità”, stanno turbando il dibattito attraverso commenti sui social media, creando dei webinair o millantando competenze. A questo si associa la mancata verifica di alcuni articoli usciti sui quotidiani e sui mensili nazionali, che parlano di fughe dalle città, borghi 4.0 e migliaia di acquirenti di case in un borgo spopolato. Di progetti attivi che hanno continuità da prima della pandemia ce ne sono, sono pochi e stanno continuando a lavorare sicuramente non alla ribalta di Facebook. 
Pensare che i social media siano un canale referenziale per comunicare i risultati di un progetto scientifico non è professionale. Ciò che si concretizza, e viene portato avanti rimane sotto le braci.

In questi mesi critici, in cui si cerca di capire cosa accadrà, mi si chiede spesso se c’è una modalità per vivere nei paesi, per tornare ad abitare luoghi che sono al collasso.

Sicuramente la modalità di rapina, raccontata come atto poetico non aiuta. Entrare nelle case degli altri e poi magari fotografare incendi divampati subito dopo è da delinquenti. Far rimbalzare notizie di speculazioni economiche o appoggiare progetti di southworking in cui c’è il nulla pneumatico pure. Quindi, quali sono le modalità?
Continuare a lavorare come facevamo prima della pandemia, perseguire le finalità e gli obiettivi che ci eravamo dati. I paesi vivono in lockdown da sempre, e passano da una emergenza all’altra senza che questo diventi un argomento nazionale. I terremoti, la mafia rurale, la mancanza di servizi, la violenza strutturale e il controllo sociale sono dei traumi enormi, per chi vive in queste zone. La pandemia insiste su questo terreno, creando dei divari maggiori.
Quando si lavora in un paese, in una piccola frazione, e si tiene un diario, ci si accorge che i piccoli risultati avvengo nel lungo periodo. Rientrare in possesso della propria storia orale, analizzare gli archivi ed imparare a leggerli. Interpretare un canto e capire insieme che è una sopravvivenza di un testo ancora più antico. Nei contesti dove manca tutto, e la memoria orale è un filo conduttore tra un prima e un dopo, questo, ha la forza di ricreare spazi. Riesce a donare vitalità e movimento lì dove non vedevamo nulla. Li ricompone. Per questo dove gli altri vedono abbandono e predazione solo la comunità e chi ha competenze può ricostruire.

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Anna Rizzo

Archeo-Anthropologist, Ethnographer. I map ancient cultures observing people & walking in the countryside. Mail: studioannarizzo@gmail.com