Svegliarsi a Ballarò

Anna Rizzo
5 min readApr 30, 2021

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Il Sud trasformato in una call to action.

Anna Rizzo, Eboli. Foto Giulio Rivelli.

Il ritorno raccontato come opportunità, comincia con il marketing dei borghi e finisce con la personale consegna politica. Si sono appropriati dell’argomento paese, per pura propaganda, confondendo la vita dei nomadi digitali, con quella del paesano ritornante.

E sulla confusione tra smartworking e nomadismo digitale, si sono formate cordate di innovatori, e di aziende che stanno spianando carriere per prepararsi all’entrata in politica, come se il Sud fosse un deserto di professionalità e nessuno avesse delle competenze. Con portatori d’interessi, stakeholder, mappature, ma soprattutto follower, per riuscire ad per avere una delega come “rappresentanti istituzionali”.

Il nomade digitale, ha una modalità diversa di lavorare rispetto allo smartworker, che pertiene solo a una nicchia, in cerca di stimoli e di opportunità professionali e fiscali, vivendo di incertezze economiche e precarietà, disintermediandosi con i luoghi.

La pandemia ha messo in luce, in realtà, la forte dipendenza che si ha ancora dalla famiglia, e il potere decisionale che esercita sul destino dei figli, avendo il potere di far fallire carriere.

Cordate di innovatori, architetti, speculatori turistici, omettono le effettive condizioni imprenditoriali di chi sceglie di lavorare al Sud. Come il controllo sociale della mafia, la difficoltà di fare impresa, la disuguaglianza di genere, i disservizi sanitari, le clientele, la difficoltà di raggiungere i paesi, la mancanza di stazioni ferroviarie. Il digital divide, l’ingerenza della famiglia in ogni scelta, la violenza strutturale di alcuni contesti, e il rischio di perdere ogni entusiasmo.

Molte zone del Sud, sono rimaste drammaticamente arretrate, la mia generazione è cresciuta nell’epoca delle opere incompiute, sarebbe terrificante rivedere la stessa strategia “nelle aree interne della Sicilia”, sfruttate come set. Si stanno ripresentando le stesse logiche, la geografia e la marginalità dei territori viene usata come mezzo di controllo politico per l’accesso ai finanziamenti, con la promessa e la “speranza” di un cambiamento.

Secondo bell hooks, femminista e attivista afro americana “La marginalità è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza. Un luogo capace di offrirci la condizione di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi. Non si tratta di una nozione mistica di marginalità. E’ frutto di esperienze vissute”.

Circolano più comunicati stampa che effettivi progetti.

Molto di cui si discute non è mai stato realizzato, messo in pratica, o si ha intenzione di attuarlo. Creare eventi sullo spopolamento, sulle nuove modalità di abitare o sul ritorno all’agricoltura è un trend domenicale per format televisivi, che funziona molto bene tra accademici e progettisti.

Giornalisti poco attenti alla verifica delle informazioni divulgano comunicati stampa su intenzioni, riunioni, assemblee a cui fa seguito il nulla. Dando la percezione che qualcosa si stia muovendo, creando una realtà ologrammatica di quello che sono i paesi e il Sud, ben diversa da quello che sta accadendo. Nell’arco di poche settimane, il south working ha interessato anche questi spazi. In cui non si hanno dei reali obiettivi, ma si è in cerca di un luogo in cui riposizionarsi.

All’improvviso palazzi nobiliari, paesi, frazioni come in un gioco da tavola, sono diventati spazi per abitare, per il “lavoro agile”, e per vivere una dimensione “più autentica” con la propria terra. Come se l’opportunità l’abbia creata la pandemia, e lo stato di emergenza sia stato funzionale solo per accelerare un processo.

Questo è il momento di tenerci stretti, dopo il south working, lo smartworking dei paesi, adesso partiranno progettazioni per cablare paesi nel nulla, per vendere ruderi che in teoria diventeranno futuri alberghi di lusso, o per pianificare i pacchetti turistici per chi cerca le proprie radici.

Chi segue quest’argomento da una decina d’anni, vive un dé jà vu, lo abbiamo vissuto anche dopo il terremoto del centro Italia. La ricostruzione, le New Town, gli alberghi diffusi di lusso, l’abbandono.

Chi parla di ritorno al Sud per lavorare al Nord, si pone come un piccolo amministratore delegato, come se dovesse vendere qualcosa.

Annina per Claudio Mammucari.

La retorica dei figli delle aree interne, appartiene ad un mondo tutto al maschile, dove sotto la categoria “tradizione” vengono reiterati comportamenti maschilisti, patriarcali e di sublaternità, di esclusione delle donne dal dibattito pubblico, o dalla loro capacità di determinazione. La reiterazioni di modelli anacronistici, sfruttati per una narrazione turistica di idea di paese, dove la famiglia è il luogo della massima rappresentatività della coesione sociale, soffoca una dimensione emergente. Quella delle coppie di fatto, di chi non si riconosce in dinamiche legate alla riproduzione o sceglie una dimensione affettiva non ancora contemplata in luoghi molto piccoli.

I paesi hanno le loro regole, e da questo non possiamo sfuggirne. I tempi di assimilazione, rispetto a una qualsiasi trasformazione, nelle culture contadine, hanno dei tempi molto lenti, perché la tradizione protegge una modalità quasi immutabile, che ha permesso storicamente di resistere a una serie di cambiamenti. In ambito accademico l’agricoltura storica e la pastorizia, così come la storia locale viene ampiamente evitata, o trattata con tutti gli stereotipi di un secolo fa. Manca un’adeguata ricerca, ma soprattutto manca l’umiltà. Perché studiare un contesto arcaico, dove le fonti sono per lo più orali, e la vita nei paesi molto dura, ha un costo, che non tutti sono disposti a pagare. Quello del tempo, della ricerca d’archivio, e della collaborazione con la comunità.

Essere radicali.

L’unico modo per riabilitare il Sud è quello di riaprire i salotti privati e le case nobiliari, la sciatteria e il grottesco a cui stiamo assistendo, sul ritorno al Sud non si può evitare, ma almeno arginare.

Non si possono consegnare luoghi storicamente importanti per la storia locale a speculatori, che vogliono vendere l’idea di paese. L’accaparramento di spazi importanti, come i palazzi storici ad uso esclusivo di una nicchia imprenditoriale, esclude una moltitudine di abitanti. Creando maggiore disuguaglianza e senso di smarrimento. Reiterando una marginalità interna, di sfruttamento del patrimonio architettonico, artistico, storico, ad uso esclusivo. Vendiamo scenografie, loggiati, terrazzi, giardini, in cui è più facile coinvolgere nell’esperienza autentica imprenditori. In cambio del nulla, se non un maggiore divario tra chi vive da sempre al Sud e chi lo sfrutta.

I luoghi storici della cultura, i palazzi d’epoca, non possono essere lasciati a speculatori, o essere spazi a pagamento per impressionare i clienti.

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Anna Rizzo

Archeo-Anthropologist, Ethnographer. I map ancient cultures observing people & walking in the countryside. Mail: studioannarizzo@gmail.com