Una nuova normalità

Anna Rizzo
6 min readMay 14, 2020

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La tradizionale misoginia dei paesi.

La meravigliosa me con Claudio Mammucari.

L’idea di essere isolati in una stanza senza avere contatti è tremenda. Uscire da casa per comprare libri, articoli di cancelleria, toner, giornali, riviste e tornare a casa è avvilente. Non si può vivere, dormire e lavorare nella stessa casa. Nemmeno se si vive in una villa meravigliosa con un giardino tropicale. Preferisco uscire per recarmi in uno studio, in una biblioteca o in un archivio. E sono fortunata perché vivo in una città che può offrirmi tutto nel breve raggio, e potrei unire queste uscite a momenti di socialità. Ma se vivessi in un paese dove mancano le biblioteche, i centri di documentazione, le librerie, le edicole fornite di giornali scientifici, le cartolerie da ufficio, dovrei fare abbonamenti alle riviste, farmi spedire libri senza consultarli per capire se sono adeguati alla mia ricerca, e comprare on line tutto ciò che mi serve per gestire un ufficio da casa. Senza considerare che tutti i corsi di informatica li ho fatti gratis in un Apple Center, e ho frequentato centinaia di ore nei loro laboratori creativi. Usufruendo del Genius bar ogni volta che ce ne è stato bisogno, ricevendo assistenza immediata e risolvendo in maniera serena qualsiasi infortunio del mio Mac. Così come comprare nel giro di mezz’ora qualsiasi accessorio per il computer. Queste sono le città. Non andrei mai a vivere in un paese.

Un lavoro cognitivo come il mio potrebbe ricevere beneficio da quel contesto per qualche settimana. Per scrivere, per isolarmi in maniera sicuramente più serena, portandomi da casa un baule di oggetti che mi potrebbero servire. Non ho la macchina e non penso di prendere mai la patente, perché mi sembra un attardamento sociale. Dato che la maggior parte dei paesi è collegata male o non è collegata non riuscirei nemmeno ad arrivarci.

Non riuscirei mai a lavorare e vivere in un paese perché ho bisogno di stimoli. E mi dispiace dirlo, ma nei paesi, a meno che non ho come vicini di casa Dacia Maraini ed Ettore Scola non mi sentirei stimolata. Esistono delle perle rare, ma so bene, che nei paesi la figura dell’intellettuale o dello studioso, a meno che non sia diventato un professore universitario o sia famoso, è considerata una figura bizzarra e strana, che nutre un sentimento di superiorità. Magari chiusa sempre a studiare o leggere, isolata ed evitante. Che non frequenta la piazza o i bar, che dice cose inafferrabili, insomma, che vive nel suo mondo.

Vivere in un paese e fare un lavoro intellettuale è uno stillicidio o un suicidio sociale. Il divario culturale è profondo. Soprattutto se sei donna. Una donna che argomenta, che prende la parola o risponde in maniera critica è definita sfrontata. Una professionista che come me che va al bar, si muove da sola, va il ristorante è da vessare e insultare pubblicamente. Denigrandola perché sembra in vacanza e anche loro possono lavorare così. La ferocia verbale e fisica che si vive e che vivono le donne nei paesi è raggelante. Non penso nemmeno che sia un argomento tabù. E’ uno stato di opposizione e di conflitto aperto, che nasce nelle famiglie, viene distillato tra i parenti e rappresentato nelle piazze.

La sublaternità che si vive nei paesi, e la libertà che hanno di schiacciarti e di umiliarti per qualsiasi cosa che fai. Dall’andare a fare la spesa all’ora di pranzo al decidere di fare uno sport all’aperto, dal fare una professione notoriamente maschile al crescere da sola un figlio. Tutto viene stigmatizzato facendoti vivere in una spirale di mancanze e di colpe. Lo sguardo che ti rivolgono è il controllo che assumono per raddrizzarti, per indicarti cosa fare e come farlo, senza che tu abbia chiesto nulla o ne abbia bisogno. Il lavoro svolto, anche in maniera eccelsa da una donna non verrà mai riconosciuto, mai constatato, se non in relazione a un progetto o attribuendo la leadership a un uomo. Insomma vivere nei paesi ed essere una professionista e scegliere qualsiasi forma di vita è un incubo. A meno che non diventi la moglie di. Ma non è il nostro caso, dato che non abbiamo bisogno di sposarci per sentirci integre.

Mentre scrivo sulla mia condizione di smartworker, avvilita dalla mancanza di relazioni e di contatti dovute alla pandemia, le librerie rimangono l’unico luogo di ristoro e l’unico modo per ancorarmi a un mondo colorato. Sperimento una vita solitaria, dove sicuramente il guscio della casa mi protegge e allo stesso tempo mi fa desiderare di vivere in campagna, o in montagna ma non in un paese. Che è diverso dal dire di tornare a vivere nei borghi. Vivrei in una splendida casa in campagna, è lì vorrei avere il mio studio, la mia sala cinema, la mia spa, la mia splendida camera da letto e un orto che si autogestisce da solo. Perché non ho le competenze, né il fisico per farlo. Però ne approfitterei per mangiare bene chiaramente avendo cura di trasferirmi con qualcuno in grado di farlo in maniera eccelsa. Ecco, riconoscendo il limite di ogni ambiente abitativo possiamo fare delle scelte, o magari immaginarle.

Esistono dei paesi emancipati, dove queste dinamiche, se ci sono, vengono attutite, perché il paese ha fatto un percorso di apertura. Diciamo collettivo, dove le spinte dei più giovani, o dei gruppi di professionisti, con grandissima conoscenza del territorio, sono riusciti a mettere in moto una catena di curiosità e di consapevolezza, di partecipazione democratica elaborando insieme le criticità, rompendo gli schemi dell’ordinarietà, generando un sistema di conosocenza. Attraverso festival d’arte, di teatro, con residenze di artisti, cineforum, microfestival o appuntamenti letterari. O elaborando forme abitative condivise legate a progetti agricoli o formativi.

Coinvolgendo i più reticenti, riuscendo a captare le resistenze per trasformarle in partecipazione.

Non i tutti i paesi questo stato di grazia può manifestarsi. Ce ne sono alcuni che vantano decine di migliaia di turisti l’anno, che sono considerati i borghi più belli d’Italia, ma che sono rimasti paludati a schemi patriarcali e ultraortodossi, dove la donna è assimilata alla cura dei figli e rimane la regina del tinello. Sulle storie delle donne e degli uomini nei paesi si potrebbe riscrivere una storia sociale, che conosciamo tutti, ma che fa orrore tirare fuori, che si presenta sotto forma di tabù, dato che l’onore e la famiglia sono dei sigilli sacri che non si possono infrangere. Esistono i taumaturghi e i guaritori delle aree interne, che spettacolarizzano aspetti mortali trasformandoli in cura. La distanza sociale che si sta vivendo nelle città, non ha ristrutturato l’idea che si ha dei paesi. Affrontare un ritorno nel pieno di una pandemia lo considero un atteggiamento malsano, come chiamare un ex nei momenti di sconforto o sentire persone che abbiamo allontanato perché il nostro stato emotivo è turbato. Allearci con chi ci ha respinti o non ci ha dato chances, è un mancato senso di responsabilità verso noi stessi, è una retrotopia in cui dobbiamo evitare di cadere. Pensare a un passato migliore dà forza all’impossibilità di pensare in maniera utopistica il nostro futuro.

Nel paesi, come nelle periferie delle città che vivono delle fragilità profonde, non ci si può andare in un periodo complesso e instabile come quello che stiamo vivendo. Sia perché rischiamo di abusare di quegli spazi in maniera opportunistica, sia perché hanno delle difficoltà oggettive che non sono sostenute a livello sanitario, dei servizi e delle infrastrutture.

Il capriccio nella “nuova normalità” praticata sulle spalle degli altri è l’ennesimo atto egoistico e narcistista. L’idea che non possiamo rimanere ognuno ai nostri posti, ma dover approfittare di luoghi sicuramente più sani e incontaminati per esportare il peggio delle abitudini delle città rimane in cima alla scala dei valori ancorati ad un Io, ad un Ego e ad un atteggiamento individualista versus un noi e una comunità, che non si considera. Essere connessi nella relazione con il paese è un equilibrio mutevole, fatto anche di relazioni significative che non siamo in grado di percepire né di accettare.

Il grande passaggio verso un’umanità nel senso valoriale del termine è pura fantascienza, ucronìa.

Possiamo diventare più consapevoli dei nostri limiti, possiamo investire in questo tempo sospeso per metterci in pari con i ritmi feroci che avevamo, ma non meno produttivi di adesso. Possiamo ristrutturare le relazioni che avevamo, ma non possiamo accettare la tradizionale misogina dei paesi né trasformarli in nuove terre mitiche di riscatto.

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Anna Rizzo

Archeo-Anthropologist, Ethnographer. I map ancient cultures observing people & walking in the countryside. Mail: studioannarizzo@gmail.com