Very normal people

Anna Rizzo
4 min readFeb 25, 2021

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L’esibizione della comunità

Foto Claudio Mammucari

In questi mesi di grande riflessione e pausa dalle attività sul campo, ho ascoltato conferenze, panel e interviste sulle progettualità nelle aree interne. Un po’ per noia e un po’ per ascoltare dagli ideatori, quali innovazioni, quali spinte hanno mosso il desiderio di occuparsi di un paese con pochi abitanti. Ho ascoltato i più noti, parlo di tutto ciò che negli ultimi anni, fino all’inizio della pandemia era attivo, faceva rete, e si interfacciava con altri progetti in Italia. Questo grande fermento che si vuole far percepire, questa grande onda di progetti che si fa rimbalzare sui social media, in realtà non esiste. Un po’ perché gli attori e gli autori sono sempre gli stessi, perché si generalizza su alcuni argomenti, non constatando che agiscono su ambiti diversi e molto specializzati, che ricadono nelle aree interne e non per forza si occupano delle loro criticità. Mentre altri, che sono storicamente situati in questo ambito, non vengono né visti né intercettati, perché non si muovono sui canali dei social network, né si spingono in dibattiti già canonizzati.

Quello che emerge dal divertente disordine sul futuro di queste aree è l’appropriarsi di storie, di metodi, di termini, di modalità di interazione e in base a questo grande setacciamento condotto on line, creano, senza avere contezza del campo, delle progettualità con il paese. La comunità è lo strumento da citare, che permette approvvigionamenti, consensi, allineandosi a un trend, compiacendo un pubblico e i relatori. Un business in crescita, mutuato dalla pubblicità e dai protagonisti delle aree interne in cui l’ostentazione dei very normal people, delle persone comuni, cioè una comunicazione senza filtri, è la garanzia di autenticità.

Il feudalesimo dei bandi e la spartizione dei paesi. Rinomineremo i luoghi in base ai bandi o le programmazioni che li hanno interessati, ridisegnando la toponomastica locale, esercitando una volontà che fa a meno della memoria, e preferisce le brandizzazioni.

Il rischio potrebbe essere quello di restituire storie e discuterne in base a quello che chiede il mercato, attraverso osservazioni disordinate, generalizzando, secondo un approccio utilitarista, generato dal momento. Le progettualità istantanee, mancano di critica e di revisione e raramente possono avere un risultato. Certi processi vanno analizzati nel lungo periodo. “Ogni memoria è un impegno, un tentativo, uno sforzo” direbbe Marc Bloch. Siamo stati educati da una generazione che ci ha tramandato le storie dei luoghi, noi consegneremo brand, presìdi, Capitali della cultura, targhe e fidelizzazioni ed associazioni turistiche, dimenticandoci del loro passato.

Il paese da collezione. Deposito di luoghi comuni e targhetizzazioni. Non riesco ad immaginare transumanze di persone in giro per l’Italia dei borghi, senza che loro sappiano in base a quale scarto di qualità sia stata creata la tendenza a sponsorizzare un paese rispetto ad un altro. I paesi posso essere avamposti di futuro, o rimanere trappole del sottosviluppo se non si progetta uno studio a lungo termine e sul campo con gli archeologi, antropologi, studiosi dell’arte, ripristinando e dando valore alle architetture locali, aggiornando le cartografie e rimappando i territori, musealizzando ciò che finora è in mano a un custode.

La storia è la strategia di difesa, dalla sciatteria del turismo delle esperienze. La strategia è la creazione di un grande archivio storico, archeologico, antropologico. Che può dare uno slancio costruttivo e creativo al contesto. Liberandolo dai retaggi retrogradi e attardati che ci portiamo dietro come un codazzo. L’aspetto tragico e allo stesso tempo seducente per chi lo studia, è la perdita delle testimonianze. Bisogna trasmettere la storia di un luogo, non la pubblicità, i nomi dei bandi e dei progetti che insistono in un territorio, spacciandolo come rigenerazione. Il marketing turistico distoglie l’attenzione dal necessario e dalla sua storia.

Non si può raccontare l’Italia attraverso le tipicità alimentari, le ricette e i salumi. E’ un impoverimento grottesco e tragico, se tutta l’attenzione si sposta sul cibo. Sono almeno dieci anni che siamo sotto scacco dalla bolla del food, che finalmente sembra sgonfiarsi. Sappiamo tutto sui pecorini, ma non sappiamo nulla sulla pastorizia. Sulle montagne italiane, che sono tutte straordinariamente diverse. Sui pionieri che le hanno esplorate, sulla vita ad altissima quota, sull’Italia vulcanica, sui geositi. Su certe biblioteche pazzesche conservate in paesi minuscoli. Sugli artisti contemporanei che hanno scelto di vivere in luoghi stupendi, dispersi tra le montagne e sulle residenze degli artisti che lavorano con le comunità in contesti unici, come i rifugi e i bivacchi. Sono magnetizzata dalle storie degli scialpinisti che aprono vie di ascesa nuove. Da esplorazioni e osservazioni sul campo mai fatte prima. E’ come se sapessimo osservare e riconoscere la grandezza di Botticelli o di Rembrandt, e non riuscissimo a osservare il nostro paesaggio con tutti i suoi personaggi.

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Anna Rizzo

Archeo-Anthropologist, Ethnographer. I map ancient cultures observing people & walking in the countryside. Mail: studioannarizzo@gmail.com